martedì 17 giugno 2014

La mattina di ogni esame


La sensazione è sempre la stessa, che si tratti di un esame sulla carta complicato o più abbordabile. La mattina di ogni esame è sempre nello stesso modo da cinque anni.
Suona la sveglia, la spegni e senti che c'è qualcosa che non va, che non è un giorno come gli altri. E' come se la notte tu ti fossi allontanato troppo e riemergi alla realtà piano piano: "ah già..." 
Ti alzi repentinamente: l'ultima cosa che faresti in un giorno ordinario. Passi dal bagno, eviti di gingillarti davanti allo specchio e vai subito al dunque con spazzolino e dentifricio. La doccia l'hai già fatta ieri sera, anche se era l'una e i tuoi coinquilini ti avranno certamente maledetto. 
Esci dal bagno e scegli come vestirti: 
ma davvero devo piegarmi al sistema e indossare una camicia o una polo il 17 luglio a Firenze?
Alla fine sì, ti pieghi al sistema, soprattutto se l'esame si chiama persuasione. Stimoli periferici, a me. 
Ti vesti e già sudi. Poi raduni fogli, appunti, quaderni e libri che hai ben preparato la sera prima; quasi li hai messi a letto rimboccando le coperte. I fogli che fino a qualche ora prima erano spiegazzati e sporchi, ora erano in una busta trasparente, come se tu dovessi presentare un progetto alla NASA. Metti tutto nello zaino, te lo carichi sulla schiena e ti guardi intorno. 
Il libretto c'è, le chiavi, eccole, il telefono l'ho preso. Sblocchi la tastiera e leggi un messaggio
In bocca al lupo. Baci. Ma
Ma è una firma, ovviamente, non qualcuno che ha inviato per sbaglio. 
Scendi le scale, sali in macchina e cerchi qualcosa alla radio. Da cinque anni, la mattina dell'esame hai sempre ascoltato qualcosa che ti desse un po' di spinta. Prima lo facevi a piedi o in bus o in bici, con le cuffie, ora lo fai con l'autoradio. Rimpiangi la bici, perché era figo pedalare con la musica, ma poi te l'hanno rubata. Con la macchina è tutto un po' più... macchinoso, appunto: magari becchi un pezzo bello carico, ma sei in coda. Non ha senso. Tu ti muovi, ma la macchina è ferma.
Arrivi in facoltà (o scuola), guardi tra gli avvisi l'aula dove si terrà il tuo esame e intanto noti gente intorno che ripassa in maniera ossessiva sulle panchine. La disgrazia in quel momento è già dietro l'angolo: incontrare quello o quella che sa anche una cosa più di te, di cui tu non hai mai sentito parlare.
Oh, ma il framing darling Stark è del 1975 o del 1976? 
Appunto. Guarda lascia stare, vado a fare colazione. La fame è poca, ma bisogna farla, nonostante il mal di stomaco da performance. 
Infatti vai ai distributori automatici: il classico di ogni mattina con esame, Kinder Cereali e caffè espresso. Aaah. Se il distributore fosse un barista andrebbe più o meno così

Buongiorno Frank!
Buongiorno caro, il solito?
Si grazie. Oggi è dura.
Vai tranquillo. Ma la camicia con questo caldo?
Finisci la colazione dei campioni e vai a sederti dentro l'aula incriminata. Il docente arriverà tra qualche minuto e non stai a togliere dallo zaino gli appunti: lasciali dormire nelle loro buste trasparenti. Fai conversazione, ma solo con quelli che non hanno intenzione di ripassare. Ovviamente sono le solite frasi di circostanza: nessuno sa niente, tutti hanno studiato poco, ma sono gli stessi che prenderanno più di te. 
Entra il prof, un lui o una lei, con al seguito un range di assistenti tra i due e i sette. 
Il mal di pancia si fa forte. Viene fatto l'appello e ti prende quella sensazione orribile
e se non mi chiama? Mi sono prenotato?
poi ti chiama
presente!
Hai sempre trovato buffo continuare a dire presente anche dopo i diciotto anni, ma ora si fa sul serio. 
Se è orale, allora sì che inizi a ripassare, aspettando il tuo turno. Se è scritto, ci siamo. Ti arriva il foglio, scrivi subito matricola, nome e cognome e poi guardi le domande.  
Ogni volta va così, tutto quello che succede dopo lo sapete.

domenica 8 giugno 2014

L'altra faccia del pallone



Amo il calcio. E' lo sport che più di tutti mi incolla alla televisione o mi spinge ad andarlo a vedere dal vivo. Tifo Fiorentina, come molti sanno e mi perdo pochissime partite durante il campionato. 
Questo è l'anno dei mondiali in Brasile, che iniziano tra qualche giorno, e che portano con loro proteste di un Paese che da noi arrivano filtrate e poco approfondite. 

Su Internazionale di questa settimana c'è un articolo di Paulo Lins, giornalista brasiliano che scrive per El Pais Semanal che racconta come "nel paese del calcio, nessuno sia felice", nonostante notoriamente lo standard brasiliano ha il sorriso stampato in faccia. 
I primi sintomi di questa insoddisfazione abbiamo potuto notarli dalle amichevoli pre-mondiali che sono state giocate in suolo verde-oro: negli spalti i brasiliani sono tutti bianchi. Quei bambini tanto riportati negli spot pubblicitari della competizione, quelli che giocano nelle favelas, scalzi e per i quali sembra che esista solo il calcio, allo stadio non ci vanno, perché non se lo possono permettere. 

Di proteste in piazza in Brasile ce ne sono state molte nell'ultimo anno: ci si opponeva alle spese enormi che il Governo federale avrebbe messo in atto, a fronte di una situazione disastrosa della popolazione per vari aspetti: l'istruzione pubblica, i trasporti, la disuguaglianza sociale, il tasso di criminalità e il sistema fognario delle grandi città. 
Lins li passa in rassegna tutti, ricordando che sì, il Governo ha stanziato delle quote di finanziamento per l'istruzione pubblica, ma dall'altra parte si ricorda anche una sanguinosa repressione per mano delle forze dell'ordine ai danni dei professori che scioperavano nel 2013 a Rio; perché lì i maestri e i professori sono eroi che insegnano con un salario che non rende merito alla loro professione e in condizioni di grave mancanza di materiale didattico a disposizione degli studenti. 
Oppure appunto la criminalità, cui il governo ha fatto fronte con le Upp (Unidades de Policia pacificadora), che se da una parte hanno fatto sì che diminuisse il tasso di violenza in determinate zone delle grandi città, hanno dimenticato i quartieri più poveri, "che vivono in uno stato d'assedio". 
Upp o no comunque, ricorda Lins, non è con la polizia che si sradica alla radice il problema della criminalità, come invece pensa Crvalho, segretario generale della presidenza della repubblica. 
E' vero. Così come non è con quel finanziamento necessario, ma non sufficiente, che si risolve il problema dell'istruzione per cercare di garantirla anche ai più poveri. 
Insomma non si protestava (e non si protesta) per i tagli. Si protesta perché quegli otto miliardi di euro investiti dal 2010 per le strutture e il funzionamento della competizione calcistica, facevano utile da qualche altra parte.



Questo, a giudizio di chi scrive, è il prezzo della vetrina. La penitenza (che però è la popolazione a scontare, non chi ci mette la firma) che si ha se si sceglie di far finta di essere come gli altri: ricchi, idonei alle grandi manifestazioni e pronti per grandi investimenti che non rientrano in quelli che vengono chiamati diritti. 
Direte voi "anche il calcio è un diritto". Si rispondo io, ma prima vengono gli altri. 

Certamente il mondiale porta in Brasile posti di lavoro (anche se soltanto la costruzione dello stadio Amazonas ha procurato nove morti sul lavoro), attrazione economica e attenzione da parte degli altri paesi, ma sono misure temporanee che molto probabilmente non saranno in grado di colmare il grande lavoro che bisogna ancora fare per "rimediare agli errori e risolvere una volta per tutte" come scrive Lins. 

Le manifestazioni di scontento si vedono ancora oggi, a quattro giorni dalla partita inaugurale, con scioperi di ampia portata in grado di paralizzare il paese intero, come quello che ha coinvolto i lavoratori del settore dei trasporti due giorni fa. E' verosimile, scrive Eric Nepomuceno, che durante il mondiale accanto alla passione dello sport preferito dei brasiliani, si affianchi la paura di azioni di violenza che già dilagano nelle zone più povere della città da sempre, mondiali o non mondiali. 
Poi ci saranno le elezioni, poi le Olimpiadi e speriamo che tutto non ricominci da capo. 

La dura vita del paese che si mette in vetrina, ma dietro le quinte è nudo e sporco di sangue. Cosa dicevamo del calcio? Sì, lo adoro, ma a volte è bello anche solo il calcio di strada. 


sabato 7 giugno 2014