mercoledì 28 maggio 2014

Lo Psicologo e il Sondaggista




Dice Luca Sofri nel Post, in un'analisi sui risultati delle ultime elezioni europee
[il sondaggista] è un lavoro terribile: fai lo scienziato ma ti vogliono indovino, e poi ti bruciano come stregone.
E' vero. Il sondaggista è un lavoro orribile: ci si aspetta una certezza, gli si perdona forse un margine d'errore ragionevole (addirittura c'è chi nel febbraio scorso sui sondaggi ha basato una campagna elettorale di basso profilo), ma poi nella caccia ai fantasmi delle analisi delle sconfitte fa la fine quasi di un avversario politico.
Credo sia una formula facilmente adeguabile anche alla condizione dello psicologo.

Lo fai da scienziato perché lo psicologo (non tutti sanno) è anche uno scienziato che dunque adotta un metodo scientifico, per prove ed errori, per utilizzo di strumenti validati e perché struttura (o almeno dovrebbe) il proprio intervento sulla letteratura scientifica quanto più recente possibile, ma anche tenendo conto del caso specifico che gli si presenta.

Ti vogliono indovino perché la domanda posta è "dottore cosa succede se mi separo?/cosa devo fare?/qual è la decisione giusta?/mi dica cosa fare/lei che legge nella mente, mi dica come comportarmi", quando in realtà, uno psicologo non ha le risposte giuste, ma al limite buone domande, se è un bravo psicologo.

Ti bruciano come stregone perché "a me non serve fare un test/sti psicologi che credono di leggere nella mente/come si fa a fidarsi di uno che non è medico/come si fa a fidarsi di uno che non è ne carne nè pesce?".

Lo psicologo e il sondaggista. Prima salvatori, poi stregoni. Capri espiatori di sconfitte politiche, fallimenti relazionali, famiglie distrutte, aziende fallite.
Forse le due professioni da cui ci aspetta di più per la falsa convinzione che possano predire il futuro, che sia una percentuale o le conseguenze di una decisione. Ma d'altronde, quando di mezzo c'è l'essere umano, con la sua matita e la sua scelta, poco possono anche due scienziati. L'errore sta nel pretendere da loro ciò che valica il confine di questa loro scienza, che poi è la scienza di tutti.

Io sto con gli scienziati, anche quelli un po' sfigati.


Le photographe est mort: da Capa a Rocchelli



Non è la celebrazione del ricordo di una vittima italiana in terra straniera, dunque di conseguenza, non è un un focalizzarsi sulla morte di un connazionale, tralasciando i morti stranieri. Questo post con la morte non c'entra niente.
E' un parallelismo intrigante che in queste giornate di percentuali e crocette è rimasto sotto la superficie. Robert Capa e Andy Rocchelli.

Rocchelli, fotografo del Collettivo Cesura (che gli ha dedicato una bella lettera, come ho scritto anche sul Backpack), è morto sabato mattina (24 maggio) all'età di 31 anni, alla vigilia dell'Election Day europeo, dopo essere stato ferito il giorno precedente nei pressi di Sloviansk, in Ucraina, mentre era impegnato in un reportage. A darne notizia della morte la Farnesina. Insieme a lui morto anche il suo interprete Andry Mironov. Questo ci dicono le cronache.
Di Robert Capa invece, si ricordava il giorno dopo (25 maggio), l'anniversario della morte, avvenuta nel 1954 durante un suo reportage durante la guerra in Indocina.
 Una coincidenza di date affascinante, ma per chi ha avuto modo di visitare il sito di Cesura, si sarà forse accorto che il senso della cosa diventa toccante e cercherò di descriverlo con solennità, pochi fronzoli e semplicità, senza incappare in critiche di mistificazione o di culto del macabro, concetti dai quali prendo le distanze con forza.

Una delle foto più famose di Robert Capa è Il miliziano colpito a morte, scattata durante la guerra civile di Spagna. Dal sito di Cesura è possibile visionare una serie di reportage e uno di questi, intitolato Springtime, riferito dunque agli scontri armati verificatisi in occasione delle Primavere Arabe.
Tra le varie fotografie di questo reportage, c'è anche questa.
La somiglianza con il celebre scatto di Capa mi è sembrata lampante. La stessa precarietà della postura, la stessa direzione, la presenza dell'arma. Sembra quasi che la foto di Capa si sequenzialmente successiva a quest'altra: come se il miliziano fosse stato fotografato poco prima di raggiungere la collina da uno di Cesura e subito dopo, in fase di discesa quando viene colpito a morte, da Capa.
Sorpreso dalla somiglianza e dalla facilità con cui è possibile attribuire lo stesso scenario, se non la stessa scena, a queste due foto sono andato a vedere se questa meno conosciuta potesse essere davvero di Rocchelli. Ed è così. Fu esposta al Festival della Fotografia Etica nel 2012 e porta la sua firma.


Due fotografi morti ad un giorno di distanza (anche se sessanta anni di distanza) che scattano due fotografie simili e potenzialmente sequenziali. E' commovente rintracciare una somiglianza tra i destini di chi mai si è incontrato, se non in uno scatto o in una passione, ma come ho detto all'inizio, questo post con la morte non c'entra niente.
Mi preme invece scrivere del brivido che ho provato nel vedere quella foto di Rocchelli sul sito di Cesura, del magone che dal petto alla gola ha quasi fatto traboccare dagli occhi una lacrima.
Andy Rocchelli è morto e nessuna coincidenza con un qualunque famoso fotografo saprà colmare in alcun modo la mancanza ai suoi cari e ai suoi colleghi. Non sarà mai ricordato dagli appassionati della fotografia quanto Robert Capa, né il suo Miliziano che sta per giungere in cima alla collina sarà la foto simbolo di una corrente fotografica, ma grazie ad entrambi di avermi regalato un momento come nessuna fotografia ancora aveva saputo fare.
R.I.P.




domenica 25 maggio 2014

I cattivi vincono sempre

I cattivi vincono sempre. Anche all'ultimo secondo.
I buoni, gli outsider, non vincono più, perché li abbiamo fatti vincere troppo tempo nei film, nei libri e nei cartoni animati. Non esiste più la vittoria di rimonta vecchio stile. C'è solo lo strapotere dei muscoli, dell'esagerazione, di chi arriva all'appuntamento decisivo che è già leggenda ed ha fatto in tempo a rimanere sullo stomaco a chi della classe e della sobrietà fa ancora dei valori da accostare all'ambito sportivo.



Cristiano Ronaldo è il cattivo bizzoso che piagnucola finché non segna al 122esimo, a partita finita ed esulta come se avesse segnato il gol decisivo, a rimarcare, come se i diciassette gol non bastassero, che lui è il padrone di quella coppa, al di là della finale. Mostra gli addominali, scivolando dall'abbraccio dei suoi compagni che guardandolo sorridono, come si sorride a uno che "lascialo sfogare".



Nel Backpack mi ero espresso piuttosto apertamente a favore dell'Atletico. Un collettivo, non un gruppo di singoli. Il problema del collettivo è che a toccarne un componente, si sgretolano tutti. Chi tocca te, tocca anche me. E così è stato alla tegolata sul gol del pareggio. L'incapacità alla reazione. La reazione che nei film, nei libri e nei cartoni animati di cui sopra, era il punto focale del film: il discorso negli spogliatoi di Space Jam, di Ogni maledetta domenica, di L'altra sporca ultima meta. Nella realtà invece si crolla, si piange prima del fischio e ci si dispera, perché insieme al tuo collettivo eri sul tetto d'Europa, poi arriva un testone che sul tetto d'Europa rischia di andarci ogni anno e ti manda ai supplementari con la capesa.

Vincono sempre i cattivi, soprattutto se hanno il personaggio misterioso, pacato e solenne alle spalle. Il Carletto che per alcuni porta ancora avanti la bandiera italiana in campo europeo, quando di italiano non rimpiange assolutamente niente, se non forse il colore rosso-nero che però, classifica alla mano, ora gli starebbe troppo stretto.

Vincono i cattivi, perché non possono permettersi di perdere. Come il PD oggi alle urne.
I buoni perdono e guarda un po' c'hanno sempre un tocco di rosso.


sabato 10 maggio 2014

A nome mio, e mio soltanto.

Sto seguendo in maniera appassionata il dibattito nato intorno alla lettera aperta inviata da Michele Serra tramite La Repubblica all'amministratore dell'omonima pagina Facebook (che per l'appunto, non è Michele Serra).
La stragrande maggioranza dei commenti e dei twit che ho avuto modo di leggere condannano le parole di Serra e lo criticano per essere ancorato all'era pre-social network. Secondo molti utenti, Serra avrebbe toppato miseramente, chiedendo di essere lasciato in pace dall'amministratore di questa pagina.
Perché dunque ti scrivo, a te falso me dei social network? Per chiederti, nella sola maniera pubblica che mi è propria (la pagina di un giornale), se per favore puoi smetterla di usare abusivamente il mio nome e il mio volto. Se per piacere puoi morire in quanto me, e vivere in quanto te. Oppure essere te, per ragioni che non posso e non voglio sapere, ti pesa al punto di non volerlo più essere? E nel caso, comunque: io che cosa c’entro?
Il falso Michele Serra avrebbe comunque risposto e promesso di chiudere la piattaforma, come ho spiegato anche sul Backpack.
Anche il collega di Serra, Mantellini, afferma che le parole del giornalista sono state in un certo qual modo fuori luogo, perché "tutto ciò che diciamo riceve più o meno questo tipo di trattamento".
Aggiunge Mantellini
Per tutto il resto però, nel momento stesso in cui il suo libro o il suo articolo vengono resi pubblici, continuerà a non esserci molto da fare. Quelle parole diventeranno le parole di tutti, verranno mescolate, rubate, riusate e prese in giro. E non ci sarà per fortuna Polizia Postale che tenga. 
Ora, al di là della confusione identitaria che una situazione del genere può scatenare (come potete leggere sempre dall'articolo sul Backpack), qui mi sento di dire di essere in quasi totale accordo con Michele Serra.
Le critiche fatte a mio avviso, peccano di definizione dello stesso oggetto: un conto è dire "le tue parole, una volta in rete, diventano le parole di tutti". Un altro conto è dire "una volta in rete, il tuo nome può essere utilizzato da tutti, anche nel riportare le tue parole".
Nel secondo caso infatti, non vengono meno per esempio i buoni principi giornalistici, ma di fatto il proprietario del nome va incontro ad una serie di rischi:
- sicuramente il tal Matteo proprietario della pagina avrà sempre riportato le parole di Serra in maniera fedele, senza distorcerle, ma in mano a centinaia di migliaia di altre persone, dalla falsa bocca di Serra sarebbero uscite parole non sue e un giornalista, che con le proprie parole ci lavora, non è un rischio da correre;
- siamo sì vulnerabili alle critiche di ciò che scriviamo sui social, ma non vedo perché dovremmo esserlo anche a quello che non scriviamo, ma che paradossalmente porta il nostro nome;
- per ultimo, ma forse non di importanza, il rischio di perdere la garanzia del fatto che con il mio nome, io ci faccio quello che voglio, ma io solo, e non gli altri.

In nome della legge si emettono sentenze, che possono essere condivise. Ma una pagina facebook dal titolo Io sono la legge non fa diventare legge tutto ciò che pubblica, perché appunto, la legge è un'altra cosa. 
Capisco la bellezza e il fascino dell'era della dinamicità e della condivisione globale, ma sull'intimità del nome, della propria firma e di tutta la responsabilità che ne deriva, a parer mio, non si può peccare di superficialità.
Serra è passato per molti come quello fiscale, non aperto al mondo social; come quello attaccato al nome... ma può essere motivo di critica il fatto di essere attaccati ad un nome? Si trattasse di un nome di un'azienda, di una testata giornalistica, di un'organizzazione potrei quasi comprendere, ma che una critica simile venga sollevata a chi con quel nome ci è nato (e cresciuto) mi pare quantomeno incomprensibile.

Non si può pretendere che chi lavora con le proprie parole possa lasciar correre e rimanere inerme di fronte all'esproprio della propria firma. Il fatto che la pagina incriminata sia "innocua" conta poco, così come contano poco le critiche di chi si scaglia contro chi rivendica (e fa strano soltanto a scriverlo) il proprio nome.
Non vorrei che questo giochino dei social network ci fosse sfuggito di mano: non c'è nessun motivo comprensibile dietro all'utilizzo del nome altrui, ci sono innumerevoli motivi comprensibili dietro alla rivendicazione del proprio nome. Le parole sono importanti, ancor più i nomi. 
Le parole di Serra sono di Serra, diventano nostre se le condividiamo ("faccio mia la parola tua"). Il nome di Serra rimane di Serra, anche se condividiamo quello che scrive.