giovedì 8 gennaio 2015
Essere Charlie
Ho sempre provato sentimenti ambivalenti verso la collettiva adozione di un simbolo. Dunque, provo sentimenti ambivalenti nei confronti de Je suis Charlie. Se da una parte questo convoglia l'attenzione generale verso quello che è successo e soprattutto con quella denotazione, dall'altra cambiare l'immagine del profilo o stampare la scritta in questione ed appenderla in ufficio o in classe rischia di diventare un'azione percepita come sufficiente. Invece, non è mai abbastanza. Non possiamo fermarci.
Se davvero siamo tutti Charlie allora dimostriamolo. Saremo Charlie anche domani, anche tra un mese e tra un anno. Essere Charlie significa dire Anch'io dico, scrivo o disegno quello che voglio, ucciderete anche me? Essere Charlie significa difenderla quella libertà, ma anche smettere di liberarsene. Avere una libertà comporta una responsabilità, e se proprio vorremo spararla grossa, un'altra volta, allora spariamola, ma senza dimenticare che, se siamo davvero tutti Charlie, prima di spararla, avremo fatto del nostro meglio per spararla consapevolmente.
venerdì 2 gennaio 2015
Cercarsele, dopo essersi dati un ceffone
Quando avevo circa 9 anni successe che mi presi quasi un ceffone da mio padre. Eravamo a tavola, guardavamo il tg e ci arrivavano le notizie da una qualche guerra, probabilmente quella in Kosovo. La tv era alla mia destra, alla mia sinistra, a capotavola, sedeva mio padre. Il servizio parlava di un giornalista ferito, se non addirittura ucciso, non ricordo bene.
- Eh, se uno se le cerca...- dissi, senza scrollare gli occhi dalla televisione, con la forchetta in mano sporca di sugo e il boccone in bocca.
PAM! Saltai sulla sedia.
Mio padre aveva battuto il pugno sul tavolo talmente forte che sembrava la guerra fosse piovuta in cucina. Mi guardò con gli occhi spalancati. La mascella serrata. Due secondi così. Poi disse:
- Se le cercano perché così noi possiamo sapere cosa succede nel mondo mentre ci mangiamo la pasta al sugo -
Mi bastò quello, ma oggi un ceffone me lo sarei dato. Almeno da solo.
Ecco. Vanessa e Greta se la sono cercata perché in Siria la gente muore sotto la guerra. Se la sono cercata per ben 3 volte e se alla terza succede loro di essere sequestrate da un gruppo legato ad Al Qaeda, o si è solidali, o al massimo si sta zitti dopo essersi dati un ceffone.
- Eh, se uno se le cerca...- dissi, senza scrollare gli occhi dalla televisione, con la forchetta in mano sporca di sugo e il boccone in bocca.
PAM! Saltai sulla sedia.
Mio padre aveva battuto il pugno sul tavolo talmente forte che sembrava la guerra fosse piovuta in cucina. Mi guardò con gli occhi spalancati. La mascella serrata. Due secondi così. Poi disse:
- Se le cercano perché così noi possiamo sapere cosa succede nel mondo mentre ci mangiamo la pasta al sugo -
Mi bastò quello, ma oggi un ceffone me lo sarei dato. Almeno da solo.
Ecco. Vanessa e Greta se la sono cercata perché in Siria la gente muore sotto la guerra. Se la sono cercata per ben 3 volte e se alla terza succede loro di essere sequestrate da un gruppo legato ad Al Qaeda, o si è solidali, o al massimo si sta zitti dopo essersi dati un ceffone.
mercoledì 24 dicembre 2014
Ci vediamo al Bar Trombetta
Nella mia infanzia e nella mia adolescenza soprattutto, ho fatto prevalentemente una cosa, ho nuotato. L'ho fatto con amici e amiche che ogni tanto mi capita ancora di incontrare e sentire nonostante siano passati quasi dieci anni dalla fine di quel bel periodo.
Eravamo tanti e le famiglie di questi tanti avevano fatto comprensibilmente amicizia, dato che mamme, babbi e nonni ogni giorno si trovavano in piscina per portare o per riportare qualcuno di noi. Ci aspettavano tutti nella hall dell'impianto e nel mentre che noi ci asciugavamo la testa parlavano del più e del meno.
Il sabato e la domenica erano i giorni delle gare. Grosseto, Siena, Colle val d'Elsa, Poggibonsi, Pontassieve, Livorno. Eccetera. Un po' per l'amicizia di cui sopra, un po' perché qualcuno conosceva meglio la strada, solitamente le famiglie si davano appuntamento la mattina presto davanti al Bar Trombetta. Ci vediamo al bar trombetta e si va.
Il Bar Trombetta è un bar appunto di una piccolissima frazione di un piccolissimo paese della Toscana. E' al piano terra di un piccolo edificio di soli due piani in cemento. L'insegna è bianca, c'è scritto Bar Trombetta Panini, ma i panini noi non ce li compravamo mai. Quando tutte le auto familiari arrivavano nel parcheggio davanti al Bar Trombetta qualcuno faceva un cenno con gli abbaglianti per dire noi ci siamo. Qualcuno scendeva affrontando il freddo invernale mattutino, si presentava al finestrino di un altro, consitringendolo ad aprirlo e rovinare quel microclima di aria calda che si era creato nella vettura.
-Allora siamo pronti?-
Davvero? Hai rovinato il mio microclima per chiedermi se eravamo pronti?
Nel buio mattutino di quella frazione, di quel paese, regnava solo il bianco latte dell'insegna del bar. In quel blu scuro era quasi un'istituzione a cui tutti rispondevano con gli abbaglianti. Nel frattempo che ci si contava arrivavano tutti, finché anche la famiglia ritardataria di qualche secondo rispetto all'appuntamento, non dava il suo saluto all'insegna del Trombetta. I motori si riaccendevano e in colonna, come una spedizione di mezzi militari, imboccavamo la superstrada di turno per arrivare a destinazione. Alle nostre spalle l'insegna bianca del Bar Trombetta ci ricordava quanto diamine ci si sveglia presto per andare alle gare di nuoto. Ah. Il Bar Trombetta in tutto questo era chiuso, sempre.
lunedì 3 novembre 2014
Mal di domenica
E mentre il mal di testa domenicale ti annebbia il giudizio sull'orario di partenza, di ritorno alla settimana, non sai come smontare quella rabbia: abbiamo perso anche oggi. La prossima è in casa ma è tosta, sarà un campionato anonimo, non lo guardo! Altro che mal di testa tutte le domeniche.
Qualcuno cuoce castagne; non mi far pensare al cibo.
Qualcuno brucia sterpaglie; questo fumo sembra nebbia.
L'autunno stanca e annoia.
Il fiato si fa nuvola per il freddo; sotto la camicia sudi perché in alcuni momenti è ancora caldo.
Questa domenica di novembre, il pranzo della nonna, la partita, il mal di testa e ora il ritorno, non serve a niente.
venerdì 24 ottobre 2014
Spaesae Carrellus
Ho sempre ammirato i carrelli. Quelli del supermercato: sono così buoni, mansueti. Se li spingi in una direzione sono accomodanti e affabili.
I carrelli della spesa sono delle specie di gnu, antilopi, o comunque mammiferi che brucano tra le corsie. . Devono accumulare cose ed arrivare in fondo! Lo so che non hanno una vita propria eh, figuriamoci. Si si, lo so.
Però. Tipo. Praticamente no, se tu li guardi bene, facendo finta che chi li spinge non esista, si muovono in modo particolare, tipico loro. Tutti, uno per volta, entrano da quelle sbarre tondeggianti che si aprono automaticamente, ma solo dopo essersi ritrovati una monetina nel naso. Brucano un po’ vicino alle verdure, poi ripartono al piccolo trotto o con una calma invidiabile, come se chi li spingesse, che sì, lo so che esiste, ma mettiamo che non esista, si fosse fermato a parlare con qualcuno che ne spinge un altro. Tipo, ti immagini se facessero amicizia? Succede raramente eh, ma secondo me nascono di quelle amicizie tra carrelli-gnu incredibili.
A volte succede anche che il solito gruppetto di carrelli arrivano alla fine del supermercato insieme e si fanno di quelle esperienze! La fila alla gastronomia, sopportano il peso delle confezioni di bottiglie d’acqua, le uova rotte. Purtroppo qualcuno non ce la fa: eh si perché il supermercato è un posto pericoloso, un percorso impervio e non tutti riescono a farcela. Tipo, a quelli che gli si rompe una rotellina. Ah. Quelle posteriori! Quante volte succede! E se ne rimangono lì da una parte, senza più niente dentro e giuro, mi fanno una tale tristezza, un magone! Nessuno che li aiuti, nessuno che con il cacciavite vada lì a dargli un’avvitatina, niente. Andati, quelli in fondo non ci arriveranno mai.
Quello che invece arriva alle casse per primo, se guardi bene, farebbe delle tali impennate!
Carreeeello Carreeeeello Carrello nel buco del cul, vaffancul, vaffancul!
Così gli cantano gli altri intorno. E mentre viene svuotato lo puoi vedere sorridere, quasi
emozionarsi, perché non sa cosa c’è dopo, ma crede comunque ci sia qualcosa di bello. Ha
contenuto bravo bravo tutti i prodotti che chi spinge ha scelto di comprare; è arrivato alle
casse anche in anticipo rispetto al previsto. Eccolo, sta uscendo! Viene portato fuori dal
supermercato, vicino ad un’automobile! Santo Cielo! Non è mai stato così lontano da casa. Adesso è completamente vuoto, si sente libero, nudo, al fresco di quel parcheggio. Si riparte di nuovo.
“Cosa ci fanno tutti quei carrelli come me impilati da una parte? Ehi ragazzi! A voi come è andata?” urla. Nessuno lo sente, solo io, ma so che non parla eh, lo so, lo so.
“Ragazzi!” urla, con tutto il fiato che nel ferro. Nessuna risposta. Chi lo spinge lo porta proprio lì, da quei carrelli impilati sotto una squallida tettoia di plastica sporca. Prova un ultimo tentativo, ma niente. Sono impilati. Finché, STANG! Anche lui viene impilato, ma è ancora vivo, è ancora sveglio. Poi qualcuno sfila la monetina. Buio.
Ho sempre ammirato i carrelli. Quelli del supermercato: sono così buoni, mansueti. Se li spingi in una direzione sono accomodanti e affabili. I carrelli della spesa sono delle specie di gnu, antilopi, o comunque mammiferi che brucano tra le corsie. Devono accumulare cose ed arrivare in fondo! Lo so che non hanno una vita propria eh, figuriamoci. Si si, lo so.
lunedì 13 ottobre 2014
Niente come la voce, niente come la radio
Non c'è sguardo, lacrima, tremore o sorriso che racconti l'emozione come la racconta la voce, ma non con le parole. A sua volta, la radio e solo lei valorizza il tono, le pause, le parole faticosamente scandite, senza altro stimolo che possa confondere l'attenzione di chi per caso o per passione si trova all'ascolto. Solo la radio avrebbe potuto far passare quest'emozione, nessuna pagina, nessuna post intervista in televisione, nessun documentario.
Vai tranquillo Ugo
E non si capisce se è un eddaje che show must go on oppure un goditi questo momento, raro, se non unico tra tanti per raccontare un'ultima volta agli altri cos'è stato per te parlare a quel microfono , anche in un Livorno-Trapani, anche in un Chievo-Brescia o Avellino-Entella, dopo quarantadue anni di dirette. Niente come la voce, niente come la radio.
mercoledì 30 luglio 2014
Gli psicologi e l'ossessione del numero chiuso
Non è un disturbo. E' più un languorino.
Gli psicologi sono ossessionati dal numero programmato dei corsi di laurea universitari delle facoltà (scuole) di psicologia, nel senso che lo sventolano come una delle poche soluzioni in grado di arginare le difficoltà che soprattutto i giovani professionisti psi incontrano nell'ingresso/non ingresso nel mondo del lavoro. Come tutte le ossessioni che si rispettino, vi è anche la specifica compulsione, ovvero fare qualcosa per ridurre quest'ansia dovuta al siamo troppi, che colpisce per lo più quelli che si candidano a posizioni esecutive professionali, dunque consiglieri degli ordini professionali, regionali e nazionale (fortunatamente non proprio tutti tutti).
Basta leggere le linee programmatiche del nuovo Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi, fresco fresco di rinnovamento dopo l'elezione del neo presidente Giardina
D’intesa con la Conferenza della Psicologia Accademica (CPA) e con l’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), appare quanto mai opportuno concertare con le Università la programmazione degli accessi ai corsi di laurea in psicologia, favorendo un ritorno in tempi brevi al corso di laurea quinquennale, con il superamento della laurea in scienze e tecniche psicologiche.
Che più o meno significa, mettiamoci d'accordo per quanti studenti possono essere ammessi ai corsi di laurea, così torniamo alla laurea quinquennale ed eliminiamo il 3+2.
Fatico a trovare il nesso causale tra metodo e finalità, ma anche ve ne fosse uno, non prendiamoci in giro: non è la prima volta questa in cui si leggono linee programmatiche orientate alla riformulazione del numero programmato. Qua e là, sono tante le liste che all'ultimo turno elettorale di dicembre/gennaio hanno presentato compulsivamente la volontà di ridurre gli accessi ai corsi universitari.
Ho sempre sostenuto che l'integrazione tra formazione e professione sia un requisito imprescindibile alla costruzione del bravo psicologo, essenzialmente, se non solamente, in termini di competenze. Ma quando la professione entra in scivolata sul diritto allo studio, non posso far altro che ricordarmi di che categoria disgraziata sono gli psicologi.
Integrazione non significa certo sopraffazione: non è con i vincoli imposti da chi fa già quel mestiere che si costruisce un percorso formativo di qualità. Anche perché, a dirla tutta, i corsi di laurea in psicologia hanno già il numero programmato e di fatto già ministero e ANVUR pensano a distruggerlo quel diritto allo studio. Non vorremmo incontrare altri nemici addirittura in casa nostra, passatemi la formula. Se non me la volete far passare, rispondo che sì, è casa nostra, perché l'ordine professionale un giorno vedrà anche l'iscrizione di questi malcapitati studenti di psicologia.
Insomma, potremmo assistere nei prossimi quattro anni alle visite di Presidenti e Consiglieri nelle nostre Scuole, che da una parte sono una manna dal cielo, dall'altra, non vorrei che la visita fosse atto di cortesia per dirci che è loro intenzione insistere per chiudere ancor più il numero chiuso.
Ecco, siccome non ci siete mai venuti in mezzo ai banchi delle università, cercate adesso di venirci con qualcosa di meglio.
Anche questa cosa del siamo troppi, dentro e fuori dall'università la sopporto poco. Il recente rapporto del CNOP sulla qualità della formazione in psicologia, ci dice che ad ottobre del 2013 gli iscritti all'Albo A in Italia sono 89.190. Sessanta milioni fratto 60.000 fa circa 666 (hell yeah). Quindi uno psicologo ogni 666 persone.
Sono troppi? O sono troppo pochi?
Se si pensa solo alla psicologia clinica, quella che interviene in ambito sanitario, del sostegno, del counseling, forse siamo giusti giusti. Ma forse no.
Se poi aggiungiamo che non esiste solo quella, ma che anzi, siamo assai galvanizzati dall'idea che possiamo fare tutto, ovvero intervenire in ogni ambito della vita umana, beh forse siamo troppo pochi davvero.
Dicono: si, ma se siete troppi all'università, imparate meno e male. E allora andate dal Ministro e ditele che non si può limitare l'accesso per scarsità di risorse, perché è infangare un diritto e che si impegni a stanziare più fondi, per la docenza, gli spazi, i tirocini eccetera. Anche basta di prendersela con gli studenti per risolvere i loro problemi. Ogni tanto una visitina alla mammina facciamola.
Dicono: si, ma se siete troppi all'università, imparate meno e male. E allora andate dal Ministro e ditele che non si può limitare l'accesso per scarsità di risorse, perché è infangare un diritto e che si impegni a stanziare più fondi, per la docenza, gli spazi, i tirocini eccetera. Anche basta di prendersela con gli studenti per risolvere i loro problemi. Ogni tanto una visitina alla mammina facciamola.
Allora la colpa della crisi professionale dello psicologo, delle difficoltà dei giovani psicologi, dei risicati posti per psicologo nelle strutture pubbliche, della mancanza di domanda di fronte alla eccessiva offerta, è di quanti studenti entrano all'università? Ah ok, nel senso che forse potrebbero essere di più?
Leggetevelo quel rapporto, per intero QUI. E facilmente noterete l'incongruenza tra il problema e la soluzione sventolata, che altro non può che essere figlia di un'ossessione, o comunque di un certo languorino.
venerdì 11 luglio 2014
La Geist e la Cabeça
Il 7 a 1 della semifinale mondiale tra Germania e Brasile, nonostante gli estremi tecnicismi, le scarpe di colori diversi, gli schemi, le fasce, il dai-e-vai e il 4-4-2, ci dice quanto la Testa sia in grado di far finire una semifinale mondiale come una partita arrabattata tra scapoli ammogliati al campino del prete.
Da una parte i tedeschi, che nella Geist altro non avevano che il pallone, la geometria e il dovere di rimanere ognuno al suo posto. Oltre l'erba nessuno, nemmeno sessantamila brasiliani che cantano l'inno a cappella. Solo il pallone nella Geist e vedrai che la Cabeça dei giallo-oro cede.
E infatti. Mentre i crucchi pensavano alle geometrie, i brasiliani pensavano a quanto mondo li stesse a guardare; ma non un mondo qualsiasi, il loro. Il mondiale dei mondiali. Se non lo vinci, non sei nessuno. E devi farlo, perché fuori casa è permessa la sconfitta, ma non nella propria terra, guai. Non ci pensar nemmeno.
Giorni prima dell'incontro uscì la notizia che vedeva la squadra brasiliana accompagnata da una psicologa, perché i giocatori piangono in continuazione. La pressione è troppo forte, l'aspettativa è un macigno sulle spalle di tutti e si è soli, dentro la propria Capeça a dover fare i conti con tutto il resto.
Un parassita che sta aspettando il momento migliore per diventare un demone e farti crollare sotto il peso di tutta quella pressione. L'animaletto intravede Muller solo in area di rigore, lo guarda segnare con il piattone e se ne esce allo scoperto. Di lì in poi è il padrone della scena, insieme ai crucchi.
Il gol di Muller è stato il tocco al primo tassello del domino. L'aspettativa diventa paura (di non realizzarla). La paura diventa fatica. La fatica diventa umiliazione. 7 a 1. Vincono quelli con la Geist in testa, non quelli con la Cabeça. Non quelli incapaci di liberarsi dei bozzoli di demone. Ma d'altra parte, chi ci riesce? I campioni, certamente.
Una squadra troppo vanitosa, troppo brasiliana
Cantava la Bandabardò. Si, forse uno dei peggiori Brasile che io abbia mai visto, da quando sono abbastanza grande per guardare il mondiale di calcio e ricordarmelo, ma non certo così scarso da non saper almeno tentare di giocarsela con i tedeschi. Come sarebbe dovuta finire allora Argentina - Iran?
Quella partita ci ha ricordato che la testa, vale più di ogni altra cosa, in ogni cosa.
Una notizia che dovrebbe rallegrare gli psicologi: se Brasile - Germania diventa Vigo di Fassa - Real Madrid, solo per una questione di Cabeça, quanto potremmo essere utili? Non certo a mondiale iniziato (e psicologicamente finito), ma forse un intervento anticipato di quella psicologa, male non avrebbe fatto.
martedì 8 luglio 2014
Strali di lavatrice
NOTTE TRA IL 1° E IL 2 LUGLIO 2014
È strana la sensazione di quando scrivi con le mani umide da lavandaio. Tremano i polsi di una situazione risolta che ha il tanfo dell'emergenza superata. Le stesse braccia hanno il sapore del sudore e i fremiti di una notte stanca ma senza riposo.
È stata una giornata molto positiva, sono riuscito a rintracciare appunti che mi erano necessari allo studio, avviato le procedure per un tirocinio in dipartimento, ho risolto in modo un po' onirico un algoritmo di calcolo, siamo riusciti a implementarlo al meglio delle nostre possibilità. Una piccola gioia che d'un tratto ti fa dimenticare di essere in un mondo di sfruttati e sfruttatori e se c'è qualcuno che sta peggio di te irrimediabilmente una parte di responsabilità pure ce l'hai...
Poi ti trovi quell'incidente che non ti aspetti e che ti invita a superare un brutto vizio. La lavatrice è simbolo dall'emancipazione dei costrutti domestici, ma...
Sembrano MORTI quei panni oltre l'oblò.
CAPI NERI che hanno trascorso rinchiusi una giornata spenta.
Una GRIGIA MELMA LACUSTRE permea i panni che galleggiano...
Qualcosa è andato storto. Avevo acceso la macchina stamane e ora la trovo. Allagata.
--- Guarda, preferisco un lupo di stenti che un cane alle catene. Non prendo un centesimo dai miei e sai che litigate quando insistono a darti qualcosa. L'emancipazione è una sensazione che non ha eguali, che se non vuoi comprometterla faresti bene a stare lontana dal dono che non ti manca. Guarda, preferisco al cane alle catene il lupo di stenti. ---
Ho preso la peste di vesti e l'ho versata nella bacinella.
Ho travasato in un'altra il lagno della macchina con un bicchiere che non viene usato da anni, se non per quelle cose che solo a pensarci mi sale lo sputo.
All'inizio ne riempio fino all'orlo, poi pian piano mal riesco a colmare questo bicchiere, e pure pescare in orizzontale dopo un po' già non aiuta, ma nemmeno girare la ruota e cadere l'acqua nel crogiolo improvvisato mi appaga.
È quella situazione in cui hai fatto il tuo novanta percento ma spendi il novanta percento del tempo per concludere il dieci percento che ti rimane.
--- Voglio andare all'estero. - Ma hai già visto se in Italia qualcosa ti soddisfa? - So già che non mi soddisfa, è una presunzione necessaria nel mio settore. ---
Non è ancora finita.
Lo spettacolo pietoso dell'avvitamento degli indumenti per estrarre quanta più acqua putrida mi fa pensare che sarà improbabile averli asciutti e lindi per i prossimi giorni. Il brodo schiumoso in cui erano immersi mi nausea ancora le mani.
Dai calzini patologicamente spaiati alle mutande con le scritte ovvie (“UOMO”, qualora disgraziatamente me ne dimenticassi), dai tipici pantaloni invernali anti-zanzare a quella camicia - a cui tagliai il collo che stinse - che prima d'ora non avevo visto così bordò, così sangue rappreso.
Pressa.
Arrotola.
Stringi e stendi.
Beve la vasca un fiume oscuro.
--- Hai sentito la roba da pazzi? Aumentano i costi dei corsi di lingua, come se non costassero così tanto... da pensare di azzerarli. Questo presidente Segreto (si chiama così, non posso farci niente) ha intercettato tutti i soggetti decisionali e li ha piegati ai suoi progetti. Sappiamo di una telefonata sottobanco al rampollo del PD sardo che siede in consiglio di amministrazione, anche lui si spenderà a favore dell'operazione. ---
Forse è meglio che prenda il mozzo e secchi questo lago in pavimento. Più tardi altrimenti chi si alza per la colazione avrà i piedi tutti mezzi.
--- Lo stesso mi disse, dalla piena della sua magniloquenza, che non c'era bisogno di rimborsare a chi ha zero quelle tasse che ingiustamente paga (pure se vivi di stenti i centoni li cacci) e che se non puoi pagare c'è la borsa di studio.
Già, la borsa di studio...
Non è bastato ricordargli che pure chi ce l'ha vive di privazioni e arranca ogni fine mese per campare e ogni fine anno per racimolare ossessivamente i crediti previsti. Come se qualche esame in più o qualche esame in meno fa di te più o meno “meritevole” o più o meno degno di proseguire gli studi senza essere spedito a calci fuori di qui. Secondo il rampollo del PD che siede in consiglio di amministrazione quei trecentocinquanta euro di tasse te li meriti tutti.
Tanto più i cani sono abituati al guinzaglio, tanto più ringhiano contro lupi indifesi. La lotta di classe la stanno vincendo loro, sarebbe l'ora di svegliarsi. ---
È l'alba. La saliva suggerisce il vomito e le dita rugose un sole. Meglio che indossi una maglietta bianca.
martedì 17 giugno 2014
La mattina di ogni esame
La sensazione è sempre la stessa, che si tratti di un esame sulla carta complicato o più abbordabile. La mattina di ogni esame è sempre nello stesso modo da cinque anni.
Suona la sveglia, la spegni e senti che c'è qualcosa che non va, che non è un giorno come gli altri. E' come se la notte tu ti fossi allontanato troppo e riemergi alla realtà piano piano: "ah già..."
Ti alzi repentinamente: l'ultima cosa che faresti in un giorno ordinario. Passi dal bagno, eviti di gingillarti davanti allo specchio e vai subito al dunque con spazzolino e dentifricio. La doccia l'hai già fatta ieri sera, anche se era l'una e i tuoi coinquilini ti avranno certamente maledetto.
Esci dal bagno e scegli come vestirti:
ma davvero devo piegarmi al sistema e indossare una camicia o una polo il 17 luglio a Firenze?
Alla fine sì, ti pieghi al sistema, soprattutto se l'esame si chiama persuasione. Stimoli periferici, a me.
Ti vesti e già sudi. Poi raduni fogli, appunti, quaderni e libri che hai ben preparato la sera prima; quasi li hai messi a letto rimboccando le coperte. I fogli che fino a qualche ora prima erano spiegazzati e sporchi, ora erano in una busta trasparente, come se tu dovessi presentare un progetto alla NASA. Metti tutto nello zaino, te lo carichi sulla schiena e ti guardi intorno.
Il libretto c'è, le chiavi, eccole, il telefono l'ho preso. Sblocchi la tastiera e leggi un messaggio
In bocca al lupo. Baci. Ma
Ma è una firma, ovviamente, non qualcuno che ha inviato per sbaglio.
Scendi le scale, sali in macchina e cerchi qualcosa alla radio. Da cinque anni, la mattina dell'esame hai sempre ascoltato qualcosa che ti desse un po' di spinta. Prima lo facevi a piedi o in bus o in bici, con le cuffie, ora lo fai con l'autoradio. Rimpiangi la bici, perché era figo pedalare con la musica, ma poi te l'hanno rubata. Con la macchina è tutto un po' più... macchinoso, appunto: magari becchi un pezzo bello carico, ma sei in coda. Non ha senso. Tu ti muovi, ma la macchina è ferma.
Arrivi in facoltà (o scuola), guardi tra gli avvisi l'aula dove si terrà il tuo esame e intanto noti gente intorno che ripassa in maniera ossessiva sulle panchine. La disgrazia in quel momento è già dietro l'angolo: incontrare quello o quella che sa anche una cosa più di te, di cui tu non hai mai sentito parlare.
Oh, ma il framing darling Stark è del 1975 o del 1976?
Appunto. Guarda lascia stare, vado a fare colazione. La fame è poca, ma bisogna farla, nonostante il mal di stomaco da performance.
Infatti vai ai distributori automatici: il classico di ogni mattina con esame, Kinder Cereali e caffè espresso. Aaah. Se il distributore fosse un barista andrebbe più o meno così
Buongiorno Frank!Buongiorno caro, il solito?Si grazie. Oggi è dura.Vai tranquillo. Ma la camicia con questo caldo?
Finisci la colazione dei campioni e vai a sederti dentro l'aula incriminata. Il docente arriverà tra qualche minuto e non stai a togliere dallo zaino gli appunti: lasciali dormire nelle loro buste trasparenti. Fai conversazione, ma solo con quelli che non hanno intenzione di ripassare. Ovviamente sono le solite frasi di circostanza: nessuno sa niente, tutti hanno studiato poco, ma sono gli stessi che prenderanno più di te.
Entra il prof, un lui o una lei, con al seguito un range di assistenti tra i due e i sette.
Il mal di pancia si fa forte. Viene fatto l'appello e ti prende quella sensazione orribile
e se non mi chiama? Mi sono prenotato?
poi ti chiama
presente!
Hai sempre trovato buffo continuare a dire presente anche dopo i diciotto anni, ma ora si fa sul serio.
Se è orale, allora sì che inizi a ripassare, aspettando il tuo turno. Se è scritto, ci siamo. Ti arriva il foglio, scrivi subito matricola, nome e cognome e poi guardi le domande.
Ogni volta va così, tutto quello che succede dopo lo sapete.
domenica 8 giugno 2014
L'altra faccia del pallone
Amo il calcio. E' lo sport che più di tutti mi incolla alla televisione o mi spinge ad andarlo a vedere dal vivo. Tifo Fiorentina, come molti sanno e mi perdo pochissime partite durante il campionato.
Questo è l'anno dei mondiali in Brasile, che iniziano tra qualche giorno, e che portano con loro proteste di un Paese che da noi arrivano filtrate e poco approfondite.
Su Internazionale di questa settimana c'è un articolo di Paulo Lins, giornalista brasiliano che scrive per El Pais Semanal che racconta come "nel paese del calcio, nessuno sia felice", nonostante notoriamente lo standard brasiliano ha il sorriso stampato in faccia.
I primi sintomi di questa insoddisfazione abbiamo potuto notarli dalle amichevoli pre-mondiali che sono state giocate in suolo verde-oro: negli spalti i brasiliani sono tutti bianchi. Quei bambini tanto riportati negli spot pubblicitari della competizione, quelli che giocano nelle favelas, scalzi e per i quali sembra che esista solo il calcio, allo stadio non ci vanno, perché non se lo possono permettere.
Di proteste in piazza in Brasile ce ne sono state molte nell'ultimo anno: ci si opponeva alle spese enormi che il Governo federale avrebbe messo in atto, a fronte di una situazione disastrosa della popolazione per vari aspetti: l'istruzione pubblica, i trasporti, la disuguaglianza sociale, il tasso di criminalità e il sistema fognario delle grandi città.
Lins li passa in rassegna tutti, ricordando che sì, il Governo ha stanziato delle quote di finanziamento per l'istruzione pubblica, ma dall'altra parte si ricorda anche una sanguinosa repressione per mano delle forze dell'ordine ai danni dei professori che scioperavano nel 2013 a Rio; perché lì i maestri e i professori sono eroi che insegnano con un salario che non rende merito alla loro professione e in condizioni di grave mancanza di materiale didattico a disposizione degli studenti.
Oppure appunto la criminalità, cui il governo ha fatto fronte con le Upp (Unidades de Policia pacificadora), che se da una parte hanno fatto sì che diminuisse il tasso di violenza in determinate zone delle grandi città, hanno dimenticato i quartieri più poveri, "che vivono in uno stato d'assedio".
Upp o no comunque, ricorda Lins, non è con la polizia che si sradica alla radice il problema della criminalità, come invece pensa Crvalho, segretario generale della presidenza della repubblica.
E' vero. Così come non è con quel finanziamento necessario, ma non sufficiente, che si risolve il problema dell'istruzione per cercare di garantirla anche ai più poveri.
Insomma non si protestava (e non si protesta) per i tagli. Si protesta perché quegli otto miliardi di euro investiti dal 2010 per le strutture e il funzionamento della competizione calcistica, facevano utile da qualche altra parte.
Questo, a giudizio di chi scrive, è il prezzo della vetrina. La penitenza (che però è la popolazione a scontare, non chi ci mette la firma) che si ha se si sceglie di far finta di essere come gli altri: ricchi, idonei alle grandi manifestazioni e pronti per grandi investimenti che non rientrano in quelli che vengono chiamati diritti.
Direte voi "anche il calcio è un diritto". Si rispondo io, ma prima vengono gli altri.
Certamente il mondiale porta in Brasile posti di lavoro (anche se soltanto la costruzione dello stadio Amazonas ha procurato nove morti sul lavoro), attrazione economica e attenzione da parte degli altri paesi, ma sono misure temporanee che molto probabilmente non saranno in grado di colmare il grande lavoro che bisogna ancora fare per "rimediare agli errori e risolvere una volta per tutte" come scrive Lins.
Le manifestazioni di scontento si vedono ancora oggi, a quattro giorni dalla partita inaugurale, con scioperi di ampia portata in grado di paralizzare il paese intero, come quello che ha coinvolto i lavoratori del settore dei trasporti due giorni fa. E' verosimile, scrive Eric Nepomuceno, che durante il mondiale accanto alla passione dello sport preferito dei brasiliani, si affianchi la paura di azioni di violenza che già dilagano nelle zone più povere della città da sempre, mondiali o non mondiali.
Poi ci saranno le elezioni, poi le Olimpiadi e speriamo che tutto non ricominci da capo.
La dura vita del paese che si mette in vetrina, ma dietro le quinte è nudo e sporco di sangue. Cosa dicevamo del calcio? Sì, lo adoro, ma a volte è bello anche solo il calcio di strada.
sabato 7 giugno 2014
mercoledì 28 maggio 2014
Lo Psicologo e il Sondaggista
Dice Luca Sofri nel Post, in un'analisi sui risultati delle ultime elezioni europee
[il sondaggista] è un lavoro terribile: fai lo scienziato ma ti vogliono indovino, e poi ti bruciano come stregone.E' vero. Il sondaggista è un lavoro orribile: ci si aspetta una certezza, gli si perdona forse un margine d'errore ragionevole (addirittura c'è chi nel febbraio scorso sui sondaggi ha basato una campagna elettorale di basso profilo), ma poi nella caccia ai fantasmi delle analisi delle sconfitte fa la fine quasi di un avversario politico.
Credo sia una formula facilmente adeguabile anche alla condizione dello psicologo.
Lo fai da scienziato perché lo psicologo (non tutti sanno) è anche uno scienziato che dunque adotta un metodo scientifico, per prove ed errori, per utilizzo di strumenti validati e perché struttura (o almeno dovrebbe) il proprio intervento sulla letteratura scientifica quanto più recente possibile, ma anche tenendo conto del caso specifico che gli si presenta.
Ti vogliono indovino perché la domanda posta è "dottore cosa succede se mi separo?/cosa devo fare?/qual è la decisione giusta?/mi dica cosa fare/lei che legge nella mente, mi dica come comportarmi", quando in realtà, uno psicologo non ha le risposte giuste, ma al limite buone domande, se è un bravo psicologo.
Ti bruciano come stregone perché "a me non serve fare un test/sti psicologi che credono di leggere nella mente/come si fa a fidarsi di uno che non è medico/come si fa a fidarsi di uno che non è ne carne nè pesce?".
Lo psicologo e il sondaggista. Prima salvatori, poi stregoni. Capri espiatori di sconfitte politiche, fallimenti relazionali, famiglie distrutte, aziende fallite.
Forse le due professioni da cui ci aspetta di più per la falsa convinzione che possano predire il futuro, che sia una percentuale o le conseguenze di una decisione. Ma d'altronde, quando di mezzo c'è l'essere umano, con la sua matita e la sua scelta, poco possono anche due scienziati. L'errore sta nel pretendere da loro ciò che valica il confine di questa loro scienza, che poi è la scienza di tutti.
Io sto con gli scienziati, anche quelli un po' sfigati.
Le photographe est mort: da Capa a Rocchelli
Non è la celebrazione del ricordo di una vittima italiana in terra straniera, dunque di conseguenza, non è un un focalizzarsi sulla morte di un connazionale, tralasciando i morti stranieri. Questo post con la morte non c'entra niente.
E' un parallelismo intrigante che in queste giornate di percentuali e crocette è rimasto sotto la superficie. Robert Capa e Andy Rocchelli.
Rocchelli, fotografo del Collettivo Cesura (che gli ha dedicato una bella lettera, come ho scritto anche sul Backpack), è morto sabato mattina (24 maggio) all'età di 31 anni, alla vigilia dell'Election Day europeo, dopo essere stato ferito il giorno precedente nei pressi di Sloviansk, in Ucraina, mentre era impegnato in un reportage. A darne notizia della morte la Farnesina. Insieme a lui morto anche il suo interprete Andry Mironov. Questo ci dicono le cronache.
Di Robert Capa invece, si ricordava il giorno dopo (25 maggio), l'anniversario della morte, avvenuta nel 1954 durante un suo reportage durante la guerra in Indocina.
Una coincidenza di date affascinante, ma per chi ha avuto modo di visitare il sito di Cesura, si sarà forse accorto che il senso della cosa diventa toccante e cercherò di descriverlo con solennità, pochi fronzoli e semplicità, senza incappare in critiche di mistificazione o di culto del macabro, concetti dai quali prendo le distanze con forza.
Una delle foto più famose di Robert Capa è Il miliziano colpito a morte, scattata durante la guerra civile di Spagna. Dal sito di Cesura è possibile visionare una serie di reportage e uno di questi, intitolato Springtime, riferito dunque agli scontri armati verificatisi in occasione delle Primavere Arabe.
Tra le varie fotografie di questo reportage, c'è anche questa.
La somiglianza con il celebre scatto di Capa mi è sembrata lampante. La stessa precarietà della postura, la stessa direzione, la presenza dell'arma. Sembra quasi che la foto di Capa si sequenzialmente successiva a quest'altra: come se il miliziano fosse stato fotografato poco prima di raggiungere la collina da uno di Cesura e subito dopo, in fase di discesa quando viene colpito a morte, da Capa.
Sorpreso dalla somiglianza e dalla facilità con cui è possibile attribuire lo stesso scenario, se non la stessa scena, a queste due foto sono andato a vedere se questa meno conosciuta potesse essere davvero di Rocchelli. Ed è così. Fu esposta al Festival della Fotografia Etica nel 2012 e porta la sua firma.
Due fotografi morti ad un giorno di distanza (anche se sessanta anni di distanza) che scattano due fotografie simili e potenzialmente sequenziali. E' commovente rintracciare una somiglianza tra i destini di chi mai si è incontrato, se non in uno scatto o in una passione, ma come ho detto all'inizio, questo post con la morte non c'entra niente.
Mi preme invece scrivere del brivido che ho provato nel vedere quella foto di Rocchelli sul sito di Cesura, del magone che dal petto alla gola ha quasi fatto traboccare dagli occhi una lacrima.
Andy Rocchelli è morto e nessuna coincidenza con un qualunque famoso fotografo saprà colmare in alcun modo la mancanza ai suoi cari e ai suoi colleghi. Non sarà mai ricordato dagli appassionati della fotografia quanto Robert Capa, né il suo Miliziano che sta per giungere in cima alla collina sarà la foto simbolo di una corrente fotografica, ma grazie ad entrambi di avermi regalato un momento come nessuna fotografia ancora aveva saputo fare.
R.I.P.
Di Robert Capa invece, si ricordava il giorno dopo (25 maggio), l'anniversario della morte, avvenuta nel 1954 durante un suo reportage durante la guerra in Indocina.
Una coincidenza di date affascinante, ma per chi ha avuto modo di visitare il sito di Cesura, si sarà forse accorto che il senso della cosa diventa toccante e cercherò di descriverlo con solennità, pochi fronzoli e semplicità, senza incappare in critiche di mistificazione o di culto del macabro, concetti dai quali prendo le distanze con forza.
Una delle foto più famose di Robert Capa è Il miliziano colpito a morte, scattata durante la guerra civile di Spagna. Dal sito di Cesura è possibile visionare una serie di reportage e uno di questi, intitolato Springtime, riferito dunque agli scontri armati verificatisi in occasione delle Primavere Arabe.
Tra le varie fotografie di questo reportage, c'è anche questa.
La somiglianza con il celebre scatto di Capa mi è sembrata lampante. La stessa precarietà della postura, la stessa direzione, la presenza dell'arma. Sembra quasi che la foto di Capa si sequenzialmente successiva a quest'altra: come se il miliziano fosse stato fotografato poco prima di raggiungere la collina da uno di Cesura e subito dopo, in fase di discesa quando viene colpito a morte, da Capa.
Sorpreso dalla somiglianza e dalla facilità con cui è possibile attribuire lo stesso scenario, se non la stessa scena, a queste due foto sono andato a vedere se questa meno conosciuta potesse essere davvero di Rocchelli. Ed è così. Fu esposta al Festival della Fotografia Etica nel 2012 e porta la sua firma.
Due fotografi morti ad un giorno di distanza (anche se sessanta anni di distanza) che scattano due fotografie simili e potenzialmente sequenziali. E' commovente rintracciare una somiglianza tra i destini di chi mai si è incontrato, se non in uno scatto o in una passione, ma come ho detto all'inizio, questo post con la morte non c'entra niente.
Mi preme invece scrivere del brivido che ho provato nel vedere quella foto di Rocchelli sul sito di Cesura, del magone che dal petto alla gola ha quasi fatto traboccare dagli occhi una lacrima.
Andy Rocchelli è morto e nessuna coincidenza con un qualunque famoso fotografo saprà colmare in alcun modo la mancanza ai suoi cari e ai suoi colleghi. Non sarà mai ricordato dagli appassionati della fotografia quanto Robert Capa, né il suo Miliziano che sta per giungere in cima alla collina sarà la foto simbolo di una corrente fotografica, ma grazie ad entrambi di avermi regalato un momento come nessuna fotografia ancora aveva saputo fare.
R.I.P.
domenica 25 maggio 2014
I cattivi vincono sempre
I cattivi vincono sempre. Anche all'ultimo secondo.
I buoni, gli outsider, non vincono più, perché li abbiamo fatti vincere troppo tempo nei film, nei libri e nei cartoni animati. Non esiste più la vittoria di rimonta vecchio stile. C'è solo lo strapotere dei muscoli, dell'esagerazione, di chi arriva all'appuntamento decisivo che è già leggenda ed ha fatto in tempo a rimanere sullo stomaco a chi della classe e della sobrietà fa ancora dei valori da accostare all'ambito sportivo.
Cristiano Ronaldo è il cattivo bizzoso che piagnucola finché non segna al 122esimo, a partita finita ed esulta come se avesse segnato il gol decisivo, a rimarcare, come se i diciassette gol non bastassero, che lui è il padrone di quella coppa, al di là della finale. Mostra gli addominali, scivolando dall'abbraccio dei suoi compagni che guardandolo sorridono, come si sorride a uno che "lascialo sfogare".
Nel Backpack mi ero espresso piuttosto apertamente a favore dell'Atletico. Un collettivo, non un gruppo di singoli. Il problema del collettivo è che a toccarne un componente, si sgretolano tutti. Chi tocca te, tocca anche me. E così è stato alla tegolata sul gol del pareggio. L'incapacità alla reazione. La reazione che nei film, nei libri e nei cartoni animati di cui sopra, era il punto focale del film: il discorso negli spogliatoi di Space Jam, di Ogni maledetta domenica, di L'altra sporca ultima meta. Nella realtà invece si crolla, si piange prima del fischio e ci si dispera, perché insieme al tuo collettivo eri sul tetto d'Europa, poi arriva un testone che sul tetto d'Europa rischia di andarci ogni anno e ti manda ai supplementari con la capesa.
Vincono sempre i cattivi, soprattutto se hanno il personaggio misterioso, pacato e solenne alle spalle. Il Carletto che per alcuni porta ancora avanti la bandiera italiana in campo europeo, quando di italiano non rimpiange assolutamente niente, se non forse il colore rosso-nero che però, classifica alla mano, ora gli starebbe troppo stretto.
Vincono i cattivi, perché non possono permettersi di perdere. Come il PD oggi alle urne.
I buoni perdono e guarda un po' c'hanno sempre un tocco di rosso.
I buoni, gli outsider, non vincono più, perché li abbiamo fatti vincere troppo tempo nei film, nei libri e nei cartoni animati. Non esiste più la vittoria di rimonta vecchio stile. C'è solo lo strapotere dei muscoli, dell'esagerazione, di chi arriva all'appuntamento decisivo che è già leggenda ed ha fatto in tempo a rimanere sullo stomaco a chi della classe e della sobrietà fa ancora dei valori da accostare all'ambito sportivo.
Cristiano Ronaldo è il cattivo bizzoso che piagnucola finché non segna al 122esimo, a partita finita ed esulta come se avesse segnato il gol decisivo, a rimarcare, come se i diciassette gol non bastassero, che lui è il padrone di quella coppa, al di là della finale. Mostra gli addominali, scivolando dall'abbraccio dei suoi compagni che guardandolo sorridono, come si sorride a uno che "lascialo sfogare".
Nel Backpack mi ero espresso piuttosto apertamente a favore dell'Atletico. Un collettivo, non un gruppo di singoli. Il problema del collettivo è che a toccarne un componente, si sgretolano tutti. Chi tocca te, tocca anche me. E così è stato alla tegolata sul gol del pareggio. L'incapacità alla reazione. La reazione che nei film, nei libri e nei cartoni animati di cui sopra, era il punto focale del film: il discorso negli spogliatoi di Space Jam, di Ogni maledetta domenica, di L'altra sporca ultima meta. Nella realtà invece si crolla, si piange prima del fischio e ci si dispera, perché insieme al tuo collettivo eri sul tetto d'Europa, poi arriva un testone che sul tetto d'Europa rischia di andarci ogni anno e ti manda ai supplementari con la capesa.
Vincono sempre i cattivi, soprattutto se hanno il personaggio misterioso, pacato e solenne alle spalle. Il Carletto che per alcuni porta ancora avanti la bandiera italiana in campo europeo, quando di italiano non rimpiange assolutamente niente, se non forse il colore rosso-nero che però, classifica alla mano, ora gli starebbe troppo stretto.
Vincono i cattivi, perché non possono permettersi di perdere. Come il PD oggi alle urne.
I buoni perdono e guarda un po' c'hanno sempre un tocco di rosso.
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