domenica 8 giugno 2014

L'altra faccia del pallone



Amo il calcio. E' lo sport che più di tutti mi incolla alla televisione o mi spinge ad andarlo a vedere dal vivo. Tifo Fiorentina, come molti sanno e mi perdo pochissime partite durante il campionato. 
Questo è l'anno dei mondiali in Brasile, che iniziano tra qualche giorno, e che portano con loro proteste di un Paese che da noi arrivano filtrate e poco approfondite. 

Su Internazionale di questa settimana c'è un articolo di Paulo Lins, giornalista brasiliano che scrive per El Pais Semanal che racconta come "nel paese del calcio, nessuno sia felice", nonostante notoriamente lo standard brasiliano ha il sorriso stampato in faccia. 
I primi sintomi di questa insoddisfazione abbiamo potuto notarli dalle amichevoli pre-mondiali che sono state giocate in suolo verde-oro: negli spalti i brasiliani sono tutti bianchi. Quei bambini tanto riportati negli spot pubblicitari della competizione, quelli che giocano nelle favelas, scalzi e per i quali sembra che esista solo il calcio, allo stadio non ci vanno, perché non se lo possono permettere. 

Di proteste in piazza in Brasile ce ne sono state molte nell'ultimo anno: ci si opponeva alle spese enormi che il Governo federale avrebbe messo in atto, a fronte di una situazione disastrosa della popolazione per vari aspetti: l'istruzione pubblica, i trasporti, la disuguaglianza sociale, il tasso di criminalità e il sistema fognario delle grandi città. 
Lins li passa in rassegna tutti, ricordando che sì, il Governo ha stanziato delle quote di finanziamento per l'istruzione pubblica, ma dall'altra parte si ricorda anche una sanguinosa repressione per mano delle forze dell'ordine ai danni dei professori che scioperavano nel 2013 a Rio; perché lì i maestri e i professori sono eroi che insegnano con un salario che non rende merito alla loro professione e in condizioni di grave mancanza di materiale didattico a disposizione degli studenti. 
Oppure appunto la criminalità, cui il governo ha fatto fronte con le Upp (Unidades de Policia pacificadora), che se da una parte hanno fatto sì che diminuisse il tasso di violenza in determinate zone delle grandi città, hanno dimenticato i quartieri più poveri, "che vivono in uno stato d'assedio". 
Upp o no comunque, ricorda Lins, non è con la polizia che si sradica alla radice il problema della criminalità, come invece pensa Crvalho, segretario generale della presidenza della repubblica. 
E' vero. Così come non è con quel finanziamento necessario, ma non sufficiente, che si risolve il problema dell'istruzione per cercare di garantirla anche ai più poveri. 
Insomma non si protestava (e non si protesta) per i tagli. Si protesta perché quegli otto miliardi di euro investiti dal 2010 per le strutture e il funzionamento della competizione calcistica, facevano utile da qualche altra parte.



Questo, a giudizio di chi scrive, è il prezzo della vetrina. La penitenza (che però è la popolazione a scontare, non chi ci mette la firma) che si ha se si sceglie di far finta di essere come gli altri: ricchi, idonei alle grandi manifestazioni e pronti per grandi investimenti che non rientrano in quelli che vengono chiamati diritti. 
Direte voi "anche il calcio è un diritto". Si rispondo io, ma prima vengono gli altri. 

Certamente il mondiale porta in Brasile posti di lavoro (anche se soltanto la costruzione dello stadio Amazonas ha procurato nove morti sul lavoro), attrazione economica e attenzione da parte degli altri paesi, ma sono misure temporanee che molto probabilmente non saranno in grado di colmare il grande lavoro che bisogna ancora fare per "rimediare agli errori e risolvere una volta per tutte" come scrive Lins. 

Le manifestazioni di scontento si vedono ancora oggi, a quattro giorni dalla partita inaugurale, con scioperi di ampia portata in grado di paralizzare il paese intero, come quello che ha coinvolto i lavoratori del settore dei trasporti due giorni fa. E' verosimile, scrive Eric Nepomuceno, che durante il mondiale accanto alla passione dello sport preferito dei brasiliani, si affianchi la paura di azioni di violenza che già dilagano nelle zone più povere della città da sempre, mondiali o non mondiali. 
Poi ci saranno le elezioni, poi le Olimpiadi e speriamo che tutto non ricominci da capo. 

La dura vita del paese che si mette in vetrina, ma dietro le quinte è nudo e sporco di sangue. Cosa dicevamo del calcio? Sì, lo adoro, ma a volte è bello anche solo il calcio di strada. 


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