Ieri sera, dopo cinque mesi dalla drammatica conferenza stampa in cui confessava l'aver fatto uso di sostanze dopanti, Alex Schwazer è stato ospite a "Le invasioni barbariche" di Daria Bignardi.
La sua vita è cambiata, afferma di volersi impegnare nello studio dell'economia, ma tra le righe fa trasparire l'idea che un giorno vorrebbe tornare a marciare da professionista, nonostante, dice lui, il mondo sportivo sarà più resistente ad accettarlo di nuovo.
La Bignardi chiede i motivi che lo hanno spinto a doparsi e suggerisce lei stessa la risposta "per barare". Alex risponde che non era quello il motivo.
Credo che un atleta che abbia già vinto, o che comunque abbia raggiunto l'obiettivo massimo cui aspirava, dopo non si dopi per barare, ma perché, come diceva ieri sera Alex, "non va d'accordo con se stesso".
L'aspettativa tua, di una nazione, e la stampa pronta a prepararti la tua stessa bara, rappresentano uno stress il più delle volte insostenibile, come nel caso del marciatore. Lui non si è dopato per se stesso, ma per gli altri.
Gli altri possono essere il tuo miglior amico, ma anche il tuo peggior nemico, sopratutto quando hai la sensazione che si aspettino il mondo e la luna interi da te.
Questo non vuole essere un pensiero volto a giustificare l'errore di Alex Schwazer. Si tratta piuttosto di uno spunto di riflessione sulla fragilità dei campioni e su quanto possa essere devastante una vittoria o il raggiungimento di un obiettivo.
E' un aspetto che riguarda soprattutto gli sport individuali, ovvero le situazioni in cui le responsabilità di una performance sono solo ed esclusivamente del singolo atleta.
Alex non ne poteva più di marciare, ormai si era avvelenato con la sua stessa passione prima ancora di doparsi, tanto da entrare in depressione subito dopo la vittoria a Pechino.
Chiedetelo ad un nuotatore o ad un ciclista che pratichi l'attività a livello agonistico; chiedetegli quanto sia assorbente e monotono il suo allenamento: ore e ore a fissare una striscia nera sul fondo di una piscina o a fissare una striscia bianca sul manto stradale.
Questi atleti passano un'adolescenza e un'infanzia diversa da tutti gli altri ragazzi o bambini. Direte voi "si ma mica gliel'ho detto io". Vero. Infatti lo fanno per passione. Poi però dopo una grande vittoria, quando sopraggiunge l'aspettativa, ci siamo anche ad avere aspettative e critiche nel caso in cui l'atleta non vinca ancora.
Purtroppo non sempre l'allenamento allena anche la mente. Il corpo lo vedi: robusto, impeccabile e possente.
Ma dentro quel corpo a volte si nascondono campioni gracili e impauriti che purtroppo a volte fanno delle sciocchezze.
"Ci vorrebbe attenzione per il campione" cantava Venditti.
Ce ne vuole, ce ne vuole eccome.
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